Di ritorno dall’Aquila
7 maggio 2011, ore 8, centro storico dell’Aquila: il silenzio assordante
Un silenzio assordante, una visione da capogiro. Così mi si è presentato il Centro dell’Aquila la mattina del 7 alle ore 8. Solo noi, donne arrivate da Siena e Grosseto pronte ad incontrare le donne dell’Aquila che avevano promosso la manifestazione nazionale. Avevano invitato le donne italiane, che con il passare delle ore stavano arrivando, a stringersi con il loro dolore, la loro rabbia ma, soprattutto, con la loro voglia di ricostruirsi la vita là dove erano nate e cresciute o vi erano arrivate per studio, per lavoro, per amore.
Eravamo arrivate la sera prima intorno alle ore 22,00. L’impatto con l’albergo e con la cena non mi aveva creato particolari emozioni ma era presente la coscienza del motivo per cui eravamo li.
Quella coscienza incontrò il silenzio assordante e la visione da capogiro. Foto, messaggi, dichiarazioni, lamenti fissati su carta o stoffa e chiavi, tante chiavi penzoloni al filo che costeggiava i due lati della via del centro. Le chiavi delle case che gli abitanti non hanno più, molte delle quali rase al suolo, altre sorrette da ponteggi per i quali sono stati lucrati tanti di quei soldi da far rabbrividire ogni essere che contenga in sé un po’ di umanità. Allora ti chiedi come gli esseri umani (imprenditori affaristi, politici corrotti o perverse ideologie) possano, per denaro, cupidigia o potere uccidere i corpi e distruggere la loro “anima”. Poi la zona rossa. Entriamo in gruppo, ti porgono un casco da indossare. Per sicurezza, dice l’architetta, che insieme ai vigili del fuoco ci accompagna nella visita e di fronte a quello che vedi, la speculazione che si mostra nella sua totale entità non hai bisogno di parole: ammutolisci o urli. Non ho urlato, ho pensato ad un’altra tragedia vista con i miei occhi nel 1993: la miseria, il dolore la disperazione della gente, dei bambini e delle bambine di Gaza, alle loro case distrutte, ai loro campi dove vivono come profughi nella loro terra; ai territori della Palestina, ai carri armati, ai coloni con fucile a canne mozze che non abbandonavano mai…Due tragedie diverse: una causata da una calamità naturale, l’altra dall’appressione di un popolo ma entrambe potevano essere evitate se al posto della speculazione, dell’arbitrio e dell’odio operasse la saggezza, la serietà politica, il senso civico, il rispetto di tutte le diversità; il concetto di pace come forza della vita e dello sviluppo di una economia che riconosca a tutti gli esseri umani il diritto di vivere perché la vita non è solo mia o tua ma di tutte le donne e di tutti gli uomini, di tutti i bambini e le bambine, di tutta l’umanità.
Riuscirà l’uomo a fermarsi per riflettere e ripensare se stesso?
Tommasina Materozzi